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PANDO
Online project, 2020
Il PAV Parco Arte Vivente presenta Pando, un progetto collettivo di produzione ed esposizione di pratiche artistiche nello spazio digitale. Pubblicate serialmente, con cadenza non necessariamente regolare, le ricerche di Marina Cavadini, Gaetano Cunsolo, Edoardo Manzoni, Isabella Mongelli, Isamit Morales, Valentina Roselli, Stefano Serretta, The Cool Couple e Natália Trejbalova ci accompagneranno fino ad autunno inoltrato.
Nel corso degli ultimi mesi il sistema dell’arte si è speso nella sperimentazione di spazi di produzione e diffusione di cultura in cui il rapporto con il pubblico si risolve nella distanza, una sorta di spontaneo e concentrato processo istituente per un nuovo rapporto con il digitale. È stata una delle sfide – non la più gravosa – che il nostro settore ha dovuto affrontare in relazione alle urgenze poste dalla situazione corrente.
L’idea del progetto Pando nasce alcuni mesi fa, in dialogo con giovani artisti che in passato avevano già collaborato con il PAV Parco Arte Vivente. Alla base, non vi è l’intenzione di traslare in un contesto virtuale lavori pensati per svilupparsi nello spazio fisico, ma, al contrario, di sviluppare una ricerca o declinare nuovi aspetti di una ricerca già esistente giocando con quei particolari formati che siamo abituati a fruire online – podcast, gif, brevi video che strizzano l’occhio ai codici e alle tendenze di YouTube, pdf scaricabili e molte altre rielaborazioni dei topói della quotidianità digitale. Pando non vuole essere un’alternativa alla frequentazione dello spazio fisico del PAV (che, anzi, ha da poco riaperto i cancelli del parco!) ma un percorso espositivo virtuale in itinere a sé stante.
Chi segue la nostra programmazione, saprà che, da quattro anni, portiamo avanti il festival per artisti emergenti Teatrum Botanicum: trattandosi di una vera e propria festa, di un evento in cui trovano spazio diverse pratiche dal vivo, abbiamo deciso di rimandare la sesta edizione del festival al 2021, onde evitare di generare situazioni potenzialmente rischiose per pubblico ed artisti e per non snaturare il carattere del festival trasformandolo in una manifestazione statica. Per lo stesso motivo, abbiamo deciso di non limitarci a “spostare” il festival online, ma riformulare la nostra attenzione per il panorama dell’arte italiana emergente tramite un progetto completamente diverso.
Le tematiche affrontate rimandano alla domanda alla base di Teatrum Botanicum: partendo dall’idea che il concetto di “ambiente” poco si presta ad esaurirsi in una definizione univoca (la generica accezione dell’ambiente come ciò che sta attorno a un dato elemento si può declinare in molteplici campi, dalla biologia alla fisica, dall’ecologia all’informatica), in che modo ci si può relazionare ad esso? La pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown su scala globale, hanno richiesto un ulteriore sforzo immaginativo nella necessità di ampliare la capacità di pensarci in relazione all’ambiente. O forse, possiamo dire che certi aspetti si siano rivelati nella loro sconcertante semplicità?
In che modo possiamo pensare e ripensare i nostri codici consolidati, nel lasciare una fase in cui l’ambiente prevalente è stato quello domestico, nel momento in cui attraversiamo una fase di transizione ed ipotetico ritorno alla normalità, in cui ricominciamo a prendere contatto con quell’ambiente – di cui noi stessi siamo inscindibilmente parte – che fino a poco fa era considerato vettore di pericoli? Ma ha mai smesso di esserlo? Sappiamo bene che le minacce del global warming sono ben lungi dall’essere risolte: a dispetto delle incoraggianti fotografie che mostrano la natura riprendersi spazio, circolate negli ultimi mesi, l’effettivo calo delle emissioni, in seguito alla crisi del Covid-19, si è rivelato sostanzialmente impercettibile. Si tratta di una riduzione (-5% circa) troppo piccola e troppo limitata nel tempo – le concentrazioni di gas serra non soltanto non si sono fermate affatto ma stanno persino raggiungendo nuove vette. Così come sono ben lungi dall’essere risolti una serie di problemi sistemici della nostra normalità pre-Covid-19, che connotano le modalità con le quali attraversiamo gli ambienti.
Prima, durante e dopo la pandemia, si conferma l’incredibile attualità delle domande che da anni ci poniamo: come affrontare le molteplici forme di violenza contro l’ambiente e le persone che lo abitano, dagli atti intenzionali – veri e propri fascismi persistenti – a tutte le ineguaglianze che, troppo spesso invisibili, agiscono sul piano sistemico? E come farlo partendo da quei microcosmi che sono gli spazi dedicati alla produzione artistica e alle pratiche espositive, specie quando queste si traslano nello spazio virtuale? Con Pando, proviamo ad innescare un processo di apprendimento collettivo disseminato nel tempo, in cui le diverse linee di ricerca proposte si intersecano le une con le altre, in diverse uscite tematiche previste nel corso dei prossimi mesi, interrogando continuamente le nostre condizioni d’azione.
Pando, dal latino “estendersi”, è il nome adottato dal botanico Michael C. Grant e da un gruppo di studiosi dell’Università del Colorado per battezzare un bosco negli Stati Uniti d’America, costituito da un unico genet maschile di pioppo tremulo americano. Con genet o colonia clonale, s’intende un gruppo di individui geneticamente identici, come piante, funghi, o batteri, che sono cresciuti in un dato luogo, tutti originati vegetativamente, non sessualmente, da un singolo antenato. Nel caso di Pando, questo significa che tutte le ramificazioni del bosco fanno in realtà parte dello stesso organismo vivente, il cui massiccio sistema di radici è annoverato tra i più antichi organismi viventi al mondo, con un’età di circa 80.000 anni.
In occasione del progetto, abbiamo preso in prestito il nome di questo antichissimo genet affascinati dall’idea di un organismo che si accresce mediante la ripetuta produzione di moduli a formare una struttura ramificata, complessa e difficilmente prevedibile, che nasconde un sistema di radici solido, comune e condiviso pur manifestandosi come molteplicità. Sono le parole chiave che animano questo progetto, in cui si alterneranno, creando temporaneamente intrecci e dialoghi, diverse pratiche e linee di ricerca artistica: troverete riflessioni sui codici degli spazi che abitiamo e sul modo in cui la vegetazione viene in essi inglobata e codificata, inedite rielaborazioni di topói e costrutti culturali relativi al nostro rapporto con la natura e l’animalità, un’indagine sulle forme di intelligenza vegetale e i nostri preconcetti rispetto ad esse, uno studio dei modi in cui sfruttiamo la nozione di animalità per attribuire valore agli oggetti che produciamo, un’elaborazione sonora sinestetica, sensuale e tavolta uncanny, relativa alla nostra percezione dell’ambiente, anche da un punto di vista fisico, fortemente legato al corpo, indagini connesse alle ecologie digitali, scenari che talvolta conoscono declinazioni feroci, percorsi mindful nelle relazioni tra informazione e antropocene, il poema eroicomico di un animale estinto in attesa di rifare la sua comparsa sul palcoscenico delle specie esistenti, una serie di mixtape che fa dell’ascolto uno spazio pedagogico alternativo, per farci ballare sulla nozione di identità, ridefinendola e de-strutturandola.
Molti tra i libri, i talk online e gli articoli che più ci hanno affascinato durante il lockdown, traboccavano di riferimenti ad Alexander Bogdanov, scrittore, politico, filosofo, economista, medico e rivoluzionario vissuto tra il 1873 e il 1928. Bogdanov, principale animatore del Proletkul’t, organismo fondato in Unione Sovietica nel 1917 con lo scopo di fornire le basi di una vera arte proletaria, sviluppa una teoria dell’esperienza come campo omogeneo di prassi collettiva: per lui, ogni tipo di pratica sociale è lavoro di costruzione del mondo. “Questo mondo” scrive Bodganov “che è stato costruito ed è perennemente in costruzione […]: una serie ininterrotta di forme di organizzazione degli elementi – di forme che si sviluppano lottando ed interagendo senza alcun inizio nel passato, senza alcuna fine nel futuro”. Come commenta la studiosa russa Maria Chehonadskih1, questo significa che l’oggetto, o per meglio dire, l’organizzazione degli oggetti, è un sistema di relazioni storicamente prodotto: l’oggetto (e crediamo che questo valga anche per gli oggetti che si collocano nello spazio digitale) è l’impegno, continuamente in atto, dell’umanità al lavoro.
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